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“Spiare i propri dipendenti su Facebook è legittimo!”, fa discutere la sentenza della Cassazione

Con l’avvento dei social networks, gli aspiranti “spioni” hanno libero accesso a tutte le informazioni sulla vita “privata” di chiunque. Con lo stratagemma dei “falsi profili”, infatti, si possono stringere rapporti d’amicizia virtuali. Tutto questo non sarebbe stato possibile sino a quindici anni fa, quando si utilizzavano ancora i bicchieri di vetro per origliare i discorsi nella stanza accanto, o ci si nascondeva dietro le tendine della finestra per osservare tutti i movimenti dei vicini.

Il social “spione” per eccellenza è Facebook e ogni giorno giungono notizie che hanno dell’incredibile. Unanimemente  “sbirciare” nei profili degli altri non è corretto dal punto di vista etico, eppure la Cassazione ha emanato una sentenza destinata a scuotere l’opinione pubblica. Un imprenditore abruzzese ha deciso di chiedere l’amicizia su Facebook ad un suo dipendente creando un profilo fake. Il suo intento era quello di monitorare la presenza del lavoratore sul social perché da qualche tempo aveva notato un certo assenteismo sul lavoro. Il giovane, uno stampatore, piuttosto che dedicare il suo tempo a torni e presse, coltivava l’orticello di amicizie virtuali. Quando il datore di lavoro ha avuto piena contezza delle interazioni del dipendente ha deciso di licenziarlo.

A quel punto il giovane abruzzese ha deciso di agire per vie legali, per essere riammesso al lavoro e far cadere l’accusa del licenziamento per “giusta causa”. Secondo lui le informazioni erano state ottenute violando non solo il codice etico minimo dell’universo sociale, ma anche il rapporto di fiducia tra azienda e dipendente. La Corte di Cassazione però, dopo tre gradi di giudizio, ha rigettato le richieste con una sentenza che, sostanzialmente:

“autorizza i datori di lavoro a spiare i dipendenti”. L’iscrizione al social network è ritenuta una pratica funzionale per verificare i comportamenti non idonei sul lavoro che possono influire sull’attività aziendale.

Ovviamente è evidente come la vicenda si presenti piuttosto controversa poichè è molto difficile stabilire i limiti tra etica e legittimità. Il mondo della comunicazione si evolve in maniera così rapida che diritti di dipendenti e dell’azienda non sempre hanno gli stessi confini.  È pacifico, ad esempio, come la pratica dei falsi profili sia sicuramente “non corretta”, come non lo è, del resto, neppure percepire uno stipendio per chiacchierare con i propri amici e trascurare il proprio lavoro. A meno che il dipendente non sia un community manager e venga pagato per stare su Facebook, ma questa è un’altra storia.

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